PATAGONIA
Questo viaggio era atteso da tanto tempo e preparato con entusiasmo da mesi. E’ l’inizio di un sogno, fatto dieci anni prima; é il pomeriggio del 24 gennaio 2007 e con i nostri zaini carichi di pochi indumenti e tanti progetti arriviamo all’ aeroporto di Genova accompagnati dalle nostre mogli. Il naso all’insù per vedere il tabellone partenze e il respiro si ferma: l’aereo per Roma non partirà perché nella capitale c’è troppo vento; rimaniamo senza parole, solo monosillabi che certificano il nostro sgomento e una grande delusione; un senso di ribellione al destino di questo imprevisto provocano una infantile reazione di impotenza: partiamo lo stesso per la prima destinazione del tabellone...gli occhi di Walter e i miei si incrociano nervosamente e poi, la quiete mentale piano piano si riappropria di noi lasciandoci, peraltro, preoccupati della coincidenza aerea per il giorno dopo; non tanto per il volo Roma Buenos Aires che non poteva saltare quanto per il volo interno in Argentina da Baires a Commodoro Rivadavia, partenza del nostro itinerario. Il giorno dopo alla stessa ora non ci sono sorprese e dopo aver abbracciato Anna mi imbarco finalmente. Inizia cosi quel sogno di dieci anni prima. Infatti...
Venerdi 17 gennaio del 1997 il destino fece si che io mi ritrovassi, di punto in bianco, senza lavoro. Il primissimo sbigottimento lasciò presto lo spazio alla sensazione che un evento drastico e cruciale, potenzialmente problematico e doloroso, potesse aprire le porte ad una opportunità; ancora sbigottimento ma anche senso di libertà. Dopo una sbornia di queste contrastanti emozioni e angoli di visuale, prevalse poi un prevedibile quanto giusto periodo di presa di coscienza e relativa preoccupazione. Ma quella che apparve ed iniziò come una caduta diede il via a ciò che sarebbe stato forse il mio miglior pezzo di vita. Quello che successe nei successivi nove anni appartiene a me e alla mia famiglia, in un lungo percorso difficile e problematico che ci tolse sino in fondo ogni riserva economica ma che ci ha dato tutto il resto. Un tunnel lungo che è valso da solo il prezzo del biglietto della soddisfazione, della famiglia e della miglior realizzazione di me stesso nella vita. Nel 2005 la strada iniziò a spianare e si fece strada in me la possibilità di realizzare il sogno della mia vita. Vagabondare nel mondo e, con mia moglie, vivere ovunque. I compromessi non sono belle cose ma quelli fatti in famiglia sono belli e se volevo... pazienza se la partenza sarà sempre da Genova e se avrò anche il biglietto di ritorno.
Arriviamo in ritardo a Buenos Aires; corriamo dall’altra parte della città per il volo verso Commodoro Rivadavia. Arriviamo alla Avis di Commodoro per l’affitto della macchina di primo pomeriggio locale ma dopo un viaggio di 24 ore dalla partenza da Genova; siamo molto stanchi ma l’entusiasmo sopraffa tutto. Walter ispeziona la macchina da cima a fondo, verifica che sia abilitata a passare più volte il confine cileno e analizza il contratto da par suo. Decidiamo, come era nelle previsioni, di fare già oggi un po' di kilometri malgrado il ritardo sulla tabella di marcia e una grossa stanchezza poichè non dormiamo sul serio da almeno 40 ore; ma prima di partire dobbiamo fare rifornimento di generi di prima necessità. Nell’ultimo edificio a sud di questa ultima “vera città” argentina ci sta un piccolo supermercato ma è talmente alla periferia di tutto e in posizione a rischio che è presidiato da molti poliziotti, dentro e fuori. Siamo talmente stanchi che è meglio non farci troppe domande e ci concentriamo sulle cose da acquistare: tutte le cose che potrebbero servirci in occasioni, non auspicabili, di emergenza e comunque qualche attrezzo, fiammiferi, acqua, biscotti, cioccolato e tutto quanto ci renda ancora più liberi e felici.
Sono quasi le sette di sera ma un centinaio di kilometri non ce li toglie nessuno. Mi metto alla guida e ci prendiamo una prima vista di un ambiente che ci terrà compagnia per lungo tempo; decidiamo di arrivare a Caleta Olivia, una cittadina che raggiungiamo non prima di aver visto un aspetto tutto particolare e sconosciuto dell’ oceano; queste alte scogliere contrastano un mare blu intenso dall’aspetto insolito; non prima di essere soli dopo pochi minuti ed essere avvolti dalla prima parte di steppa e percorrere euforici una lunga strada diritta su un terreno un po' ondulato che si perde fino all’orizzonte e che ci indica il nostro mondo dei sogni. Domani forse l’incanto e l’euforia lasceranno lo spazio alla liberta e all’ interesse. Ma per dormire manca tempo perché all’ imbrunire troviamo, con qualche difficoltà, un alberghetto che ci ospiterà questa notte. Sciacquiamo il viso e alle 10, andiamo a cena accontentandoci di quello che c’é. Alla brodazza, che io normalmente adoro, sento un gusto acido sconosciuto che non riesco a descrivere al mio compagno di viaggio; al secondo piatto ancora e non mi capacito cosa possa essere e sono anzi preoccupato che i sapori della cucina di questo paese siano sempre così; Walter insiste e mi rassicura che è solo stanchezza perché lui non sente nulla. Speriamo. Il giorno dopo scoprirò che i gusti e sapori di queste terre non mi devono preoccupare, anzi. E' solo stanchezza. Una dormita colossale.
Scendiamo a sud, lungo la dorsale atlantica, verso la punta continentale più a sud del globo; siamo soli e felici. L’ aria è tersa, con poco vento e tra un po' lasceremo la costa fatta di scogliere che si affacciano su un mare sempre agitato e frequentato solo da qualche grande peschereccio o qualche nave da carico impegnata nel rifornimento delle terre più a sud di noi, isolate dal mondo. Lo spettacolo che godiamo è affascinante e per noi inusuale: la strada corre in mezzo a steppaglie ed arbusti d’erba alti mezzo metro per alimentare pecore, guanachi, nandu e qualche rapace che viene dal cielo. Certo, al primo gruppetto di guanachi abbiamo inchiodato la macchina e con molta circospezione ci siamo avvicinati per fotografare non senza gioia ed emozione; ma successivamente questo spettacolo e questo ambiente ci diventeranno familiari. E ciò per migliaia di kilometri.
All’ora di pranzo arriviamo a Puerto Deseado, un anonimo paesino ancora sul mare dove pranziamo a base di pesce e nel pomeriggio riprendiamo il viaggio andando a percorrere una strada verso est, abbandonando il mare, che ci dovrebbe portare sulla direttrice verso sud più conveniente al nostro percorso; ma sperimentiamo il nostro primo tratto di sterrato ben sapendo che ciò sarà utile in preparazione della mitica ruta 40. Per intanto ora facciamo 130 kilometri di sterrato duro; andiamo piano sapendo che qualche problema alla macchina potrebbe costare caro. In quasi tre ore incontriamo due macchine. Iniziamo a capire i tracciati e ad interpretarli sulla cartina. Se l’ambiente intorno è magicamente affascinante Puerto San Julian è proprio squallido ma dobbiamo fermarci a dormire. Al mattino riprendiamo la strada dopo aver fatto, ovviamente, il pieno di benzina; notiamo che, più ci spingiamo a sud, più scende il prezzo del carburante per la nostra felicità; i motivi sono intuibili e l’incentivazione e i sussidi per coloro che abitano da queste parti non sono di poco conto. Da chi è stata abitata all’inizio la Patagonia. Il navigatore legge ad alta voce. Il guidatore ascolta.
A pranzo siamo a Rio Gaillego dove il carburante scende ancora e tocca i 28 centesimi di euro al litro; ma questo posto ci rimarrà impresso più ancora per una straordinaria mangiata di carne alla brace; di tutto, dal manzo, al maiale, al filetto, dal maiale a un agnello strepitoso. E’ il 28 ed arriviamo al primo passaggio di frontiera perché per arrivare a Ushuaia dobbiamo passare una lingua di Chile che attraversa la Patagonia argentina. Sportelli e moduli in abbondanza, persino la macchina ha il suo modulo e qui capiamo l’importanza di quel “transit” multiplo apposto sul libretto di circolazione. Passiamo e arriviamo presto a Punta Delgada. E’ un villaggetto sperduto, spazzato dai venti e da una triste nostra impressione di degrado e oblio: qui vivere è difficile. Troviamo un alberghetto senza la minima insegna e difficilmente definibile tale dove un signore incontrato ci porta; in una "dependance" però dormiamo bene e tranquilli e al mattino ci immortaliamo nel travaso dell’acqua. Con 15 euro riusciamo a dormire, a cenare e a fare colazione. E iniziamo ad apprezzare il cielo serale ed i tramonti che rimarranno stampati nella nostra memoria e nelle nostre foto.
Puntiamo verso Ushuaia dove contiamo di arrivare in giornata. Arriviamo e ci restiamo con tutto il nostro entusiasmo per quasi tre giorni. Siamo nel punto più a sud del continente e del mondo abitato, escludendo le isolette davanti a noi che ci impediscono di vedere Capo Horn, punta di una di queste. Ma non ci impediscono di farci affascinare dal posto e da ciò che rappresenta. Non ci impediscono di vedere i leoni marini, le foche e volatili tanto forti e resistenti da migrare tra queste terre volando per settimane. Facciamo un lungo giro su una barca (walter finisce le pile della macchina fotografica) attorno a questi isolotti popolati da questa fauna. Alberghiamo presso la famiglia Piatti, di lontana origine piemontese, che ci da una confortevolissima camera dove stiamo 2 notti; con l’amico Piatti parliamo molto prima di andare a cenare; gli chiediamo cosa vuol dire abitare qui, quali gli handicap principali. Lui è prodigo di spiegazioni, molto premuroso, di consigli circa il percorso ancora da affrontare e in particolare l’attraversamento della ruta 40. Ci parla della sua famiglia e ci da le indicazioni per una cena di raffinata qualità che consumeremo sulla collina che sovrasta questa cittadina così diversa, così peculiare. Comprendiamo anche bene che vivere con così poche ore di luce non sia proprio facile.
Ripartiamo e ci dirigiamo verso nord; non appena potremo cercheremo di portarci più a est e costeggeremo da una certa distanza la catena delle Ande. Per ora, è prima mattina, la strada è asfaltata ma poi diventa sterrata per una ottantina di km. Siamo ormai abbastanza pratici ma la guardia sta sempre alzata. Pranziamo a San Sebastian, poco prima di ripassare il confine con l’Argentina. Pranziamo bene dove facciamo conoscenza con Felipe, il gestore di un ristorantino di frontiera dove abitano solo il vento e la polvere che sollevano i pochi camion che transitano per rifornire il profondo sud. Dopo pranzo il fascino di tutto mi avvolge e, steso su un carretto con la sigaretta e gli occhi chiusi, mi sento veramente libero e felice. Prima di avvicinarci alle Ande vorremmo fare l’esperienza di una estancia, l’equivalente di un bed and breakfast nostrano. La estancia Tepi non è proprio facile da trovare perché, come tutte le altre, un piccolo segno sul suolo stepposo ti indica che devi lasciare lo sterrato principale ed infilarti in una “stradina”, si fa per dire, secondaria. E ti domandi dove possa portare un sentiero che parte dal nulla e, a perdita d’occhio non vedi nulla in alcuna direzione...
Ma se si dice che c’è sarà vero e infatti, dietro quella che sembrava una impercettibile collinetta, sta una piccola oasi che si presenta all’improvviso, con tanto di staccionata che delimita questa specie di “ranch”. Entriamo, ci affacciamo a cercare qualcuno e poi troviamo una signora curva su dei fiori alla quale chiediamo se possiamo essere ospitati per un paio di notti. Così è e ci fermiamo a riposare, a meditare, a conoscere le persone, gli animali ed il cielo notturno di queste parti. E parliamo, osserviamo e impariamo; camminiamo; guardiamo il cielo, di giorno e di notte. Ci fermiamo due giorni in questa fattoria con prati, allevamento, fiori e ortaggi. Questo fuori all’aperto mentre dentro, un grande salone con tanti libri e un grande fuoco in caminetto solo per noi attiguo ad una sala da pranzo dove agnello e malbec, di quantita e qualità, rendono perfetta la giornata.
La peluria degli alberi ad autodifesa e le variazioni climatiche; in 10 minuti dal sole si passa alla pioggia e si torna di nuovo ad un cielo limpido che stasera mi consentirà di osservare a queste latitudini. E siamo ancora a Porvenir, in Cile, sullo stretto di Magellano. Dobbiamo passare e salire a nord verso le montagne. Dobbiamo passare lo stretto ma ci dicono che con questo vento il traghetto non parte; forse tra un paio di ore. Siamo nella locanda di "Pechuga”, un simpatico locandiere in una casetta di legno a pochi metri dal mare, dallo stretto; Pechuga si da da fare per avere notizie sullo stato del mare via telefono e nel frattempo beviamo con lui qualcosa; poi arrivano tre italiane che pure loro devono passare di là ma che a differenza di noi che disponiamo di più tempo, domani mattina devono essere a Punta Arenas per forza, altrimenti perdono il volo per l’Europa. Tutti facciamo buon viso a cattiva sorte e con serena convivialità ci mettiamo tutti e sei a fare un bel pranzo, Pechuga compreso. Io sarei felicissimo se non fosse che mi ostino a cercare un contatto con Anna, almeno via internet ma la lentezza del collegamento è semplicemente indescrivibile; quando dopo 90 minuti seduto al di la del banco di Pechuga riesco solo ad arrivare alla pagina di Virgilio della mia posta elettronica; alla apertura della mail di Anna il tutto si blocca irreversibilmente senza poterla leggere, ormai il mio umore si è destabilizzato.
Esco fuori a fumare un paio di sigarette nervosamente mentre Walter, nello stesso spazio di tempo, ha parlato ininterrottamente; rientro e, più tranquillo, partecipo anche io a questa serena e paziente attesa; è questo strano scorrere del tempo che pervade e caratterizza tutto e tutti; poi ci dicono che, fino a stasera non si parte e Pechuga guardando i nostri visi esclama: esta es la tierra del fuego... Passano le ore e, molto scettici, guardiamo la cartina valutando strade alternative che non esistono se non quella di fare 200 km e sperare che li il mare sia migliore. La sera ci prende ancora li a parlare e a scherzare sul fatto che nella tierra del fuego questo è il minimo che possa capitarti. Infatti alla sera non si parte e occorre sperare sul mattino seguente. Pechuga nel frattempo si è ubriacato, le tre italiane trovano via telefono un alberghetto nelle vicinanze mentre noi abbiamo aspettato la mezzanotte per decidere che anche noi avremmo dovuto dormire un po' perché la locanda chiude. Qui, davanti alla locanda di Pechuga siamo a Bahia Chicota, un piccolo porto, semideserto, a 5 kilometri dalla città. Qui fuori c’è un piazzale spazzato dal vento e popolato dal nulla dove sta la nostra macchina. La spostiamo di qualche decina di metri, tanto per non rischiare di andare in acqua su una ventata anomala e li, al freddo, restiamo fino all’alba. Una alba fatta di luci e colori tali che ripagano una notte tribolata. Arriva il traghetto prestissimo e in fretta e furia partiamo. Al di la dello stretto scendiamo e ancora più in fretta e in modo disordinato ciascuno va per la sua strada con il rimpianto negli ultimi istanti di non essersi scambiati uno straccio di numero telefonico con le nostre conterranee, una delle quali addirittura genovese; ma il bus che porta le tre italiane all’aeroporto non ci da tempo e scampo.
Anna comincia a mancarmi, non sono abituato; fortunatamente ora ho campo e gli squilli contribuiscono ad avvicinarci. Sono libero e felice. Noi iniziamo a salire il continente con destinazione Parco Torres del Paine attraverso il passo Cancha Carrera. Una strada molto polverosa che attraversa ora un territorio di pascoli fin verso le lontane montagne innevate. Un parco, il Torres del Paine, Patrimonio dell’Unesco, che è difficile descrivere. Arriviamo un po’ prima del tramonto dopo una giornata nella polvere. Ma è un bel vedere, gia dal primo impatto. Provo a raccontarvi cosa è questo parco naturale, uno tra i più famosi al mondo. Paesaggi alpini spettacolari, animali selvatici di ogni tipo, sempre abbastanza vicini all'uomo, laghi piccoli e grandi, blu, verdi e turchesi, cascate, fiumi, passerelle e ponticelli improbabili, in legno, in corda; ruscelli, zona stepposa dietro la collina, boschetti e icebergs piccoli o enormi galleggianti sul lago, costeggiato da prati fioriti, margherite e cardi selvatici, guanachi solitari e in gruppo, condor lassù in agguato, cime montane che sono patria del trekking mondiale, fiumi e sentieri che si intrecciano in un contesto di un centinaio di kilometri quadrati; una variegazione così strepitosa a distanze anche di pochi metri resa possibile dal microclima particolarissimo. Indimenticabile. Alloggiamo dentro al parco, alla Posada Rio Serrano e rimaniamo tre giorni. Dovete venire qui per vedere ed apprezzare bene ma poiché non è proprio una gita fuori porta guardate le foto, almeno.
Ripartiamo verso il Lago Argentino. Scendiamo da questo altopiano attraverso un “passo” scosceso e tra poco faremo un primo tratto della mitica Ruta 40. Eccoci. La strada è ancora asfaltata e un fatiscente benzinaio è il segnale che qui, svoltando a sinistra, verso le Ande, inizia questa strada sterrata. Per fare una esperienza all’ interno della Patagonia quasi inevitabilmente ci si imbatte in un tratto della Ruta Nacional 40; attraversa spesso una piatta desolazione e tratti panoramici, per ora almeno qui al sud tutta sterrata, questa mitica strada sterrata è ampia e compatta; si il fondo è duro, è fatta a schiena d’asino per lenire i disagi in caso di piogge torrenziali ma sassi fino alle dimensioni di un pugno sono diffusi e non consentono velocità. Abbiamo letto di viaggiatori che intraprendono questa strada per poi lasciarla stanchi dopo ore di ansia e mal di schiena ma principalmente di coloro che non si sono scoraggiati di fronte alla peggior strada di tutta l’ America meridionale che, però, ha un enorme fascino; è in mezzo alla natura più acerba immaginabile con scorci ineguagliabili ed è la via di gran lunga più breve per salire al nord del paese. Abbiamo letto molto e tutti ci hanno detto di non sottovalutare questa strada: così noi facciamo; abbiamo utensili, acqua, cibo e indumenti per ogni evenienza e procediamo lentamente dandoci un ambito cambio alla guida.
Si sa, si comincia piano e poi sali a 50 e poi a 60 km all’ora e magari talvolta anche di più andando a cercare nell’altra corsia e persino fuori strada punti migliori e più scorrevoli. E’ quasi una pista nel deserto; questo tratto è abbastanza breve e dopo 100 km e 2 due ore di gioia e di ansia arriviamo a El Calafate sul lago Argentino. Cerchiamo una camera per dormire; ci staremo 2 notti. Alla sera “Parilla libre” dove le grigliate di carne sono di una squisitezza e varietà impressionanti. Ancorchè lontanissimi dal mare siamo ancora poco sopra il suo livello di altitudine eppure domani, lunedì, saremo a 30 km da qui al Parco dei Glaciares, un ramo del lago Argentino. Su questa porzione nascosta di questo immenso lago si affacciano due immensi ghiacciai che scendono lentamente scivolando dalle Ande sino al lago, i ghiacciai Spegazzini e Upsala. I due ghiacciai più imponenti dell’America del sud. Oggi siamo qui e dal mattino al tramonto stiamo su un grosso catamarano che ci ha preso, ahimè assieme ad una trentina di turisti, portandoci a spasso nell’acqua. E’ una lenta e cauta navigazione tra centinaia di icebergs che galleggiano e si muovono lentamente sulle acque. Ci spiegano che dai diversi colori possiamo sapere se sono più vecchi o meno; ci spiegano tante cose ed è straordinario navigare, vedere e fotografare per ore in un ambiente così.
Questi ghiacciai che scivolano come una immensa ma lentissima frana scaricano pezzi enormi di ghiaccio che prima stazionano oziosamente per settimane o mesi nel lago prima di arrivare alla Baia Onelli e poi sciogliersi. L’ambiente è veramente spettacolare e anche in questo caso è meglio guardare le foto che leggere la mia retorica. Al tramonto torniamo sulla terraferma scambiandoci opinioni con Walter su ciò che abbiamo visto, ovviamente con le spiegazioni scientifiche. Sazi di ghiacci e di fotografie andiamo a saziarci al “parilla” libre. A letto presto perché domani mattina andiamo in una località vicina nei pressi della quale si affaccia il Perito Moreno. Che sarà il “clou” di questi giorni. Riesco finalmente ad avere campo sul telefono e mando un paio di messaggi entusiasti ad Anna che riceverà più tardi al suo risveglio data la differenza di fuso orario. Walter, che vuole essere pronto presto domattina e farsi una bella doccia, mi chiede di mettere la sveglia alle 6 e 30. Andiamo a dormire; io, come sempre, rigorosamente nel letto più a sinistra entrando nella camera; lascio il cellulare acceso, mi sento più sicuro del funzionamento della sveglia.
Il trillo del mio telefono fa scattare in piedi Walter che, tonico più che mai, va in bagno e si fa una doccia regale mentre io mi rigiro assonnato nel letto; guardo il telefono e vedo che sono le 3 e 10. Il trillo di prima era Anna che rispondeva ai miei sms e non la sveglia; gli imprechi di Walter verso mia moglie si sprecano; io rimango nel letto a ridere prima di riaddormentarmi e sperare lo stesso per il mio compagno di viaggio. Il Perito Moreno si affaccia su un fronte di 5 km di lago scendendo con imponenti seracchi dalle cime andine da una profondità di campo lunga 60 km. Ma la giornata è brutta e fino lassù le nuvole ci impediscono di vedere il punto di partenza del famoso ghiacciaio. La posizione nostra e degli altri turisti è strepitosa: una lingua di terra, una specie di penisoletta, si protende di fronte a questo impressionante spettacolo della natura come un platea naturale. Avvicinandoci si ha subito una impressione di stupore, quasi di ansia. Quando sei vicino rimani a bocca aperta per alcuni minuti senza parlare.
Dopo aver guardato e riguardato in ogni angolo da una postazione privilegiata in legno quasi sul lago a circa 100 metri di distanza non ti resta che fare foto in quantità ossessiva. La visita al Perito Moreno è una esperienza visiva straordinaria; ma è anche straordinaria l’esperienza uditiva e forse anche di più. Uno dei pochi ghiacciai in leggera espansione anziché in arretramento come in ogni altra parte del mondo; una pressione enorme percepibile dal vivo che provoca un movimento dell’intero fronte di quasi due metri al giorno annullato da distacchi, rotture e scioglimenti di poco inferiori. In un silenzio religioso dei pochi turisti del momento senti, con regolare continuità, ogni pochi secondi, sinistri rumori di immense masse di ghiaccio; che spinge, stritola, si muove o si spacca in crepaccio o crolla. Abbiamo avuto anche la fortuna di assistere, e fare foto e film, ad un paio di distaccamenti di immensi pezzi di ghiaccio che fragorosamente cadono in acqua; il ghiacciaio è alto sessanta metri, e lungo kilometri, e quelli che abbiamo visto cadere sembravano, nella maestosità del contesto, piccoli pezzi; sembravano ma erano grossi come un camion e veder cadere una massa cosi dall’alto è impressionante perché impiega molto prima dell’impatto. Guardate le foto, amici miei, e provate ad immaginare. Rimaniamo li molte ore sperando che si stacchi tutto un pezzo frontale, l’equivalente di un grattacielo, ma ciò avviene ogni due o tre anni e la statistica non ci è amica.
Ripartiamo con la nostra macchina che ha polvere in ogni punto, interno ed esterno. Ripartiamo verso la penisola di Valdez, paradiso naturalistico sull’ Atlantico. Dobbiamo salire e poi tornare ad est. Ci vogliono ancora diversi giorni prima di arrivare. La Patagonia non è finita; quella della natura, dei guanachi, degli avvoltoi, delle aquile, del nulla, dei nandu e dei tramonti spettacolari. Siamo ancora nella Patagonia della Ruta 40. Appunto. La riprendiamo e facciamo 8 ore di macchina con gioia e gratificazione, soddisfazione e curiosità, ma anche con ansia e timore; in una intera giornata incontriamo 5 macchine e la coppa dell’ olio prende alcuni colpi pericolosi. L’ambiente, così diverso da ieri, non è meno affascinante. Incontriamo due ciclisti in mountain bike che provengono dal Messico e vanno a Ushuaia. Li invidio, mi accontento e ripartiamo. Sono le 5 del pomeriggio e dopo aver riguardato la cartina sappiamo che dobbiamo raggiungere un paesino chiamato Tres Lagos per la notte. Non sappiamo se esiste un alberghetto ma non abbiamo scelta. Non c’è altro nel raggio di 200 kilometri. Spazzato dal vento, in mezzo al nulla, arriviamo in questo posto dimenticato da Dio e dagli Uomini. Non una anima viva, solo un ambiente da “day after” e pali e cartelli che ondeggiano paurosamente, sotto la forza prorompente del vento gelido che proviene dalle Ande.
Solo dopo un quarto d’ ora vediamo una persona che rincorriamo come una sopravvissuta: ci dice che l’ultima casa del paese, forse, ci può dare da dormire e da mangiare. Infatti, contattata la persona indicata che più tardi ci darà anche la cena, poco dopo prendiamo possesso dell’ appartamento. Si, un appartamento con 3 vani e un bagno; è pressoché impossibile distinguere quale siano le due camere o la cucina; il bagno si, perché ha un water. I muri scrostati, la polvere e il degrado sono protagonisti. Difficile immaginare un ambiente meno sporco e accogliente. Scegliamo la meno peggio delle camere; un letto non certo da due piazze con due sedie, una finestra al di sotto della quale non passa lo spiffero d’aria ma il vento direttamente; saremo, più tardi, costretti a chiedere un cordolo di sabbia da mettere, come dice la canzone, ...alle finestre. A cena mangiamo poco o niente. Siamo stanchissimi. Rientriamo, sistemiamo il nostro cordolo anti vento e, malgrado il freddo, spegniamo la stufa a gas che non ci lascerebbe tranquilli: troppo pericoloso. Prima di riposare usciamo un po’ fuori, come al solito; il vento è cessato e il cielo ci offre un tramonto stratosferico.
Per tante ragioni non dimenticheremo Tres Lagos. Al mattino riprendiamo la Ruta 40 e nel pomeriggio arriviamo ad un villaggio, Bajo Caracoles, dove ci fermiamo e staremo anche la notte. Qui finisce la Ruta 40 e lavori in corso rendono esplicito il progetto di inizio asfaltatura della strada. Ci rattristiamo a questa idea e, come abbiamo letto, l’invito a tutti è di raggiungere presto la Patagonia prima che anche lei cambi. Dormiamo nell’ostello; la porta della camera è solo appoggiata al muro, mappe e braghettone non esistono ma la gentilissima signora ci rassicura. La signora Maria gestisce solo l’ostello per dormire, non fa ristorazione; ci prende in simpatia e, su nostra preghiera e insistenza ci promette una cenetta. Nel frattempo ispezioniamo la zona circostante, facciamo conoscenze e ci caliamo in un contesto dove la natura cui eravamo abituati inizia a lasciare lo spazio ad un lavoro organizzato, seppur degradato; ad un attivismo tipico di un villaggio di frontiera. Un capannone in lamiera incerottata è una discoteca, i cantieri di asfaltatura della strada fervono e, ahimè lasciano intuire lo scemare del fascino incontrato nelle strade più a sud.
Alle 20 e trenta la signora Maria cena con noi: parilla, pomodori e frutta; il tramonto, dopo cena, ci fa terminare in modo eccezionale, quasi inquietante dalla bellezza, sulla collina, una altra giornata. Alla mattina visitiamo La Cueva de las manos, poco distanti da qui. Percorrendo il fondo del rio Pinturas, incontriamo manifestazioni di arte rupestre che sono le più antiche del sud argentino. Queste raffigurazioni rappresentano principalmente le mani, oltre ad animali di queste terre. L'isolamento della Patagonia ha permesso la conservazione di queste pitture per circa 10000 anni. La Cueva de las Manos Pintadas è stata dichiarata Patrimonio Cultural de la Humanidad nel 1999 dall' UNESCO. Le immagini delle mani sono spesso in negativo, e oltre a queste ci sono scene di caccia, esseri umani, lama, nandù, felini ed altri animali. La maggior parte delle mani sono sinistre, il che suggerisce che i "pittori" tenessero gli strumenti che spruzzavano l'inchiostro con la destra. Torniamo da Maria che ci prepara un bel pranzetto, passiamo tre ore cordiali con lei che ci fa vedere le sue fotografie insieme al racconto della sua vita.
Riprendiamo il viaggio, guidiamo alcune ore, pernottiamo dove meglio possiamo e visitiamo La Valle della Luna e il Bosque Pietrificado, un ex bosco di 130 milioni di anni fa; allora rigoglioso, oggi si rimane frastornati ad essere in mezzo ad alberi, tronchi di ogni dimensione letteralmente pietrificati e conservati in modo cosi strabiliante; oggi sembrano di marmo. Siamo soli e ci sembra di essere in un posto molto strano, in una valle di fantascienza. Stiamo avvicinandoci a Commodoro, il cerchio del nostro peregrinare si sta chiudendo; la macchina è irriconoscibile, ha polvere e sabbia ovunque ma è stata all’altezza dopo 5000 kilometri di strada; prima di lasciarla la immortaliamo e prima ancora andiamo al ristorante dove Walter vorrebbe, stanco, solo 2 pesche ed io 2 biscotti: invece pranziamo alla grande con uno straordinario cordero e cacio cavallo fuso insaporito da erbette, il tutto annaffiato da eccellente Malbec. Consegniamo la macchina e passiamo la serata in mezzo ad una serie di manifestazioni carnevalesche di una città in festa, come noi. Con un viaggio in autobus raggiungiamo Trelew, base della visita alla penisola di Valdez. E’ una riserva naturale di rara bellezza dove stiamo tre giorni; tra spiagge incantevoli e oasi di soli animali; tra immense spianate di conchiglie a perdita d'occhio, uccelli grandi e piccoli, armadilli, leoni marini, pinguini.
Un parco faunistico famoso e di rara bellezza in netto contrasto con l’ambiente di qualche giorno fa. Forse siamo stanchi, non abituati a peregrinare per un mese e non apprezziamo appieno la bellezza che ci circonda. Lo faremo dopo il ritorno. Un volo ci porta a Buenos Aires dove stiamo un giorno a conoscere questa capitale, le sue bellezze, le sue tremende sperequazioni, i livelli di povertà estremi, le sue contraddizioni. Solo un poco più accentuate rispetto ad altre grandi capitali.
E’ stato un viaggio, un viaggio vero.
E’ stato indimenticabile ed affascinante...